Uno alza la mano e chiede: “Come si fa branding su Internet?”
E’ successo durante il corso che stiamo tenendo questi giorni.
Una domanda così bella, così importante – nella sua terrificante semplicità – che non ho resistito alla tentazione di riportarla.
Inutile dire che si è subito aperta una discussione piuttosto articolata (visto il tema, è il minimo che poteva succedere).
Una considerazione di fondo: il branding in rete parte da un presupposto diverso, che secondo noi è la condivisione.
Mentre sui media tradizionali l’affermazione e il rafforzamento del brand avviene “dall’alto” (mediante soprattutto messaggi imposti a viva forza, tramite i mass-media), un analogo processo di costruzione di marca tramite comunicazione in rete non può prescindere da dinamiche create dall’utente Internet, il quale, com’è noto, è attivo e non passivo.
In rete l’utente cerca qualcosa (di solito mettendolo su Google). E’ la persona che cerca qualcosa, un qualcosa che può, forse, essere una marca.
Offline, al contrario, l’utente (target) è cercato dal messaggio (che vuole colpirlo).
Come omogeneizzare, omologare due processi così profondamente diversi verso lo stesso obiettivo? Quell’obiettivo può essere unico? E in ultima analisi, può esistere un obiettivo determinato a priori, in un ambiente dove ormai le marche non sono più di chi le produce, ma di chi le usa?
Per non dire della questione delle metriche offline-online… di cui si parla anche su Marketing Usabile.
Credo sia un discorso che trova enormi sviluppi nell’ambito delle conversazioni online e del web partecipato (blog, social network e compagnia).
Vedi ad esempio il corporate social network Nike+, commentato da BusinessWeek e ben descritto da Blogmeter, che evidenzia come anche un successo – in ambiente “social” – sia di difficile quantificazione.
L’argomento è enorme, e da solo meriterebbe un corso, più che una risposta.
Eppure, la sfida posta da questa domanda va raccolta…